“Ma bisogna pur dire che ora, riandando nella mente l’Amleto compiuto, mi pare di rinvenirvi l’idea di quel tale melodramma così fatto, presentito, sognato e invocato dall’arte e un pochino anche dal pubblico”. Con queste parole il solerte Arrigo Boito, sempre alla ricerca della nuova scoperta melodrammatica che scuotesse le acque rese stagnanti dalla presenza preponderante dell’anziano Verdi, in attesa del proprio Mefistofele, proclamava l’importanza dell’Amleto di Franco Faccio andato in scena a Genova nel 1865. Faccio non era uno sconosciuto: solo due anni prima e questa volta alla Scala, era andato in scena con buon successo “I profughi fiamminghi” su libretto di Emilio Praga e Verdi l’aveva pure apprezzato, non si sa se più per scherno o per verità. Aveva tuttavia messo in guardia il giovane compositore veronese dal troppo smarcato impegno che non corrispondeva ad un autentico rinnovamento dall’interno. Impegno di un'apertura verso un tipo di opera che era ancora il "grand-opéra” meyerbeeriano filtrato dall’esperienza verdiana con qualche tocco orchestrale “alla Wagner” prima maniera e con un uso abbastanza insistito del declamato nel canto. In Faccio, se di influenza wagneriana si può parlare, questa appare limitata ad un più esteso utilizzo dell’armonia cromatica, quasi maniacale, ma non nella drammaturgia e nemmeno nella concezione dei Leitmotiv. L’Amleto si può dunque considerare un’opera di transizione che cerca di provocare una cesura con la tradizione operistica precedente, pur rimanendo debitrice però, ancora di innegabili manierismi. Nonostante le inclinazioni wagneriane di Faccio, questa dell’Amleto è musica che rimane prettamente “italiana”, con arie, duetti e cori tradizionalissimi. Alcuni passaggi potrebbero addirittura essere usciti dalla penna dello stesso vituperato (per Boito e Faccio) Verdi, soprattutto la marcia funebre di Ofelia, che è assolutamente il punto più memorabile e bello dell'intera partitura.La ripresa dell’Amleto alla Scala nel 1871 ebbe esito catastrofico, in parte per la mediocre esecuzione, togliendo questo interessante ma troppo ambizioso compositore dall’agone operistico e lasciandolo a quello di direttore d’orchestra dove raggiunse risultati eccelsi.Riscoperta la partitura e in parte revisionata tra le due (uniche) versioni, Anthony Barrese dell'Opera Southwest (Albuquerque) ha realizzato un'edizione esecutiva dal manoscritto autografo e da una partitura per canto e pianoforte, edizione successivamente utilizzata dal Festival di Bregenz nel 2016 per la rinascita europea dell'opera di Faccio come parte delle celebrazioni per i 400 anni di Shakespeare. La Fondazione Arena di Verona decise di mettere in scena l’Opera nella città del compositore nel nefasto anno della pandemia. Dopo vari rinvii e cambi di cast anche all’ultimo momento, Amleto è finalmente andato in scena sulle tavole del Teatro Filarmonico con un esito molto felice.
Il merito principale va ovviamente alla sterminata compagnia di canto che si è dovuta trovare di fronte uno spartito ed un’opera senza una tradizione esecutiva a cui appoggiarsi, studiando e assimilando una musica che probabilmente (anzi sicuramente) non entrerà mai in repertorio.
Finalmente abbiamo udito “Amleto con l’Amleto”, perché la voce di Angelo Villari nel ruolo del titolo è pressoché perfetta. Proiezione stupefacente, tenuta impeccabile per tutte le tre ore dello spettacolo nel quale è quasi sempre presente in scena, nessuna difficoltà nei pericolosissimi passaggi di registro che, quasi a trabocchetto, Faccio pone praticamente ogni due per tre. Aiutato da una regia non particolarmente esigente, Villari si concentra esclusivamente a tornire il declamato della sua parte in maniera veramente esemplare, portando a termine la recita in maniera convincente dalla prima all’ultima nota.
Suo perfetto contraltare è stato il Claudio di Damiano Salerno, anch’egli quasi sempre in scena e con una parte che insiste sul canto di conversazione e sulla parte alta del rigo baritonale, raggiungendo il culmine nel “O padre nostro ~ che sei nel cielo” cantato con maestria encomiabile nel rendere tinta e suggestione.
La Gertrude di Marta Torbidoni si conferma cantante di altissima qualità, non solo dal punto di vista vocale, perché è inappuntabile nella sgraziata sua parte scritta da Faccio, tutta intessuta di salti di ottava e accenti al limite del verismo. Ma anche per una interpretazione veramente credibile. La sua non facile aria “Ah che alfine all'empio scherno” al terzo atto riceve giustamente applausi convinti.