Terzo titolo in cartellone al XXIII Festival Verdi, Il Trovatore va in scena al Regio in una nuova produzione che segna il debutto parmigiano di Davide Livermore. Contestato alla Prima da un pubblico notoriamente conservatore e accolto piuttosto tiepidamente anche in questa replica, l’allestimento proposto ha solo in apparenza il taglio provocatorio del Regietheater, ma l’approccio drammaturgico nel narrare la vicenda non si scosta tutto sommato dal solco della tradizione. Il regista torinese- in collaborazione con Carlo Sciaccaluga e dall’ormai rodato team composto da Giò Forma per le scene e D-Wok per le video proiezioni, con costumi di Anna Verde e luci di Antonio Castro, ripropone la sua consueta e riconoscibile cifra stilistica fatta di scenari distopici e cupi, trasposti in un’indefinita epoca post-apocalittica rievocata anche nei suoi ben noti Attila e Macbeth scaligeri. Al Quattrocento aragonese si sostituisce una periferia di freddo cemento e strutture metalliche, dove regna il degrado in una sorta di violenta guerra civile tra poli opposti della società: gli emarginati (rappresentati da circensi in luogo della comunità zingara) e i potenti (il cui simbolo sono i palazzi di cristallo sullo sfondo, che andranno a fuoco nel finale). Salvo pochi elementi strutturali in scena, il tutto prende vita attraverso il consueto ledwall che propone sul fondale una sequenza di animazioni senza soluzione di continuità, a tratti evocativa e a tratti illustrativa scadendo nel didascalico: suggestiva per esempio è l’insistente pioggia di cenere come monito costante della pira, più banali invece la luna quando viene nominata nel libretto, il fondale rosso quando si cita il sangue, una sostanza liquida quando si rievoca il veleno bevuto da Leonora. Come anticipato, aldilà della trasposizione più o meno apprezzabile a sensibilità personale, lo spettacolo ha il pregio di mantenere sempre alta l’attenzione dello spettatore, in una resa nel suo complesso dinamica e suggestiva che scorre fluida e coerente con se stessa. Unica eccezione la scelta che vede l’esecuzione di “Tu vedrai che amore in terra” allestita su un palcoscenico metateatrale con lampadari che calano improvvisamente dall’alto e specchi rivolti verso la sala semi-illuminata: che si tratti di una citazione o di una maldestra emulazione del Don Giovanni scaligero di Carsen, ci pare una soluzione isolata e gratuita che non va oltre ad un omaggio al melodramma in sé, che in questa regia nulla vale se non a distogliere il focus dalla tensione drammatica del momento.
Alcune discontinuità non mancano nemmeno sul versante musicale, che tuttavia nel suo complesso regala più di una soddisfazione.
Francesco Ivan Ciampa guida l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna con una direzione vigorosa e variegata, tendenzialmente sostenuta nel volume e nei tempi, ma capace di aprirsi ad espansioni dal respiro più lirico. Non di rado si notano scollamenti tra buca e solisti - in particolare nei terzetti più concitati - ma il direttore campano dimostra in ogni occasione grande reattività nel riprendere le redini della linea musicale, dimostrandosi particolarmente attento nell’agevolare e nel seguire i cantanti.
Tra le voci soliste si distinguono quelle femminili, a partire dall’ottima Leonora di Francesca Dotto. Colpiscono non solo la voce luminosa di bel timbro e la facilità all’acuto, ma soprattutto l’intelligenza interpretativa e un fraseggio sempre cesellato con grande cura. Coinvolta e coinvolgente in ogni aria, raggiunge il culmine nel finale (“Prima che d’altri vivere”) eseguito a fil di voce con struggente delicatezza.
Altrettanto intensa ma in contrapposizione per vocalità, ruolo e taglio scenico è la sanguigna Azucena di Clementine Margaine, in una straordinaria prova di carattere e personalità. La voce è torrenziale e modulata con sicurezza in ogni angolo della tessitura, sicura nei centri e di grande profondità nei gravi. Sorprende anche teatralmente per tenuta del palco e carisma nell’interpretare una donna colma di rabbia e assetata di vendetta, con prove di particolare potenza nella sua “Stride la vampa” e la successiva “Condotta ell’era in ceppi”.
Possente anche la voce di Riccardo Massi nel ruolo del titolo. Prototipo del tenore eroico, delinea un Manrico credibile anche se più improntato a un canto muscolare che interpretativamente raffinato, piuttosto ingessato e monocorde sia a livello di fraseggio sia a livello attoriale.
Franco Vassallo è un Conte di Luna freddo e spietato, nobile nella linea di canto anche se non troppo a fuoco negli accenti e nell’intenzione scenica. Il baritono milanese non appare sempre in bolla ritmicamente nei pezzi d’insieme, ma restituisce una buona prova nelle arie soliste tra cui un “Balen” ben eseguito e tributato ampiamente da applausi a scena aperta.
Tra le parti di fianco si distingue Riccardo Fassi (subentrato al previsto Marco Spotti) nel ruolo di Ferrando, che con intrigante voce brunita e sapiente gesto scenico esordisce con un’eccellente “Abbietta zingara” e lascia il segno in ogni suo intervento successivo.
Ottima la prova del Coro preparato da Gea Garatti Ansini.
Al termine, come anticipato, accoglienza poco più che cordiale da parte del pubblico, tuttavia con meritate punte di entusiasmo per Margaine e Dotto.
Camilla Simoncini
PRODUZIONE ED INTERPRETI
Maestro concertatore e direttore FRANCESCO IVAN CIAMPA
Regia DAVIDE LIVERMORE
Regista collaboratore CARLO SCIACCALUGA
Scene GIÒ FORMA
Video D-WOK
Costumi ANNA VERDE
Luci ANTONIO CASTRO
Maestro del coro GEA GARATTI ANSINI
ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO COMUNALE DI BOLOGNA
Il Conte di Luna FRANCO VASSALLO
Leonora FRANCESCA DOTTO
Azucena CLEMENTINE MARGAINE
Manrico RICCARDO MASSI
Ferrando RICCARDO FASSI
Ines CARMELA LOPEZ *
Ruiz DIDIER PIERI
Un messo ENRICO PICINNI LEOPARDI
Un vecchio zingaro SANDRO PUCCI
*Allievo dell’Accademia Verdiana
Nuovo allestimento del Teatro Regio di Parma
In coproduzione con Teatro Comunale di Bologna
Foto Roberto Ricci
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