Che strano destino, quello del Furioso all’isola di San Domingo: un Donizetti lucidissimo, felicemente febbrile, rimasto confinato tra le pieghe di un genere che la critica ha sempre guardato dall’alto in basso, come si guarda un cugino di campagna che arriva tardi al ricevimento. Il “semiserio”: già il nome suona come un compromesso imbarazzato, un ossimoro d’antan. Eppure, dentro quella definizione un po’ polverosa, Donizetti infila un’opera di folgorante intelligenza teatrale, scritta nel 1833 — fra l’ebbrezza zuccherina dell’Elisir e il veleno aristocratico della Lucrezia Borgia. Nel Furioso, il compositore bergamasco gioca con le ombre della follia come con un ventaglio di sfumature: un attimo prima il sorriso, subito dopo il baratro. Non tutto regge, certo — non è il “capolavoro canonico” — ma quando la musica si accende (nell’aria di Cardenio, nel duetto con Eleonora e soprattutto nel sestetto che chiude il primo atto) si sente quella corrente elettrica che solo Donizetti sa creare: un misto di nostalgia, spasimo e levità quasi mozartiana. Il testo, vagamente da Cervantes, diventa una parabola sulla perdita della ragione, ma virata al maschile: dopo tante eroine che delirano con grazia, ecco finalmente un uomo che impazzisce con dignità. È come se Donizetti, prefigurando il proprio destino di malinconico in esilio mentale, si fosse specchiato in Cardenio e avesse detto: “stavolta tocca a noi”. Opera “semiseria”, dunque, ma solo nel nome: perché qui c’è già l’ossessione moderna per il doppio, per il confine instabile fra riso e dolore, lucidità e delirio. E si capisce che Donizetti, dietro il suo sorriso bergamasco, aveva intuito del romanticismo anche ciò che gli altri ancora non sospettavano. Lo spettacolo presentato al Teatro Donizetti di Bergamo nell’ambito del Donizetti Opera Festival 2025 appartiene a quella categoria che vogliono dichiararsi intelligenti fin dall’ inizio: consapevoli, rifiniti, con l’aria di chi ha già pronta la morale ancor prima del primo sipario. La regia di Manuel Renga procede con un’eleganza calibrata, levigata, quasi pudica: l’idea di un Cardenio anziano rintanato in una casa di cura funziona, ma viene sviluppata con una compostezza quasi clinica, dove anche gli oggetti — l’armadio, la bicicletta, il veliero tropicale — sembrano timbrare il cartellino prima di entrare in scena. Tutto è raffinato, lucidissimo, coerente, ma anche controllato all’eccesso: il Furioso diventa così un album dei ricordi, una follia relegata a metafora domestica, priva di quella vertigine che Donizetti scolpisce a colpi di bisturi emotivo. È uno spettacolo impeccabile, persino troppo impeccabile: disciplinato, educato, un congegno perfettamente funzionante che però non lascia filtrare quel lampo di rischio, quel graffio di incoscienza che l’opera chiederebbe per natura. Le scene di Aurelio Colombo — foresta tropicale di carta da parati esotica, ordinata con il buon gusto di un interior designer che rifugge ogni eccesso — contribuiscono a questa estetica della medietà controllata; le luci di Emanuele Agliati, splendide e chirurgiche, rifiniscono il tutto senza mai un cedimento. Uno spettacolo, in definitiva, costruito con cura quasi maniacale, raffinato, coerente, professionalissimo: un Furioso che furioso non è mai davvero, più incline alla compostezza che al rischio, più alla competenza che alla febbre. Ed è forse proprio l’assenza di quel guizzo, di quella sconnessione poetica che Donizetti aveva nascosto tra le pieghe della partitura, a lasciare un leggero rimpianto sotto tanta, impeccabile eleganza.