La coproduzione italo-irlandese di Zoraida di Granata, dopo il debutto della versione del 1822 a Wexford lo scorso anno, arriva a Bergamo in occasione del bicentenario della versione del 1824.
Le due versioni di Zoraida di Granata (Roma, 1822; Milano, 1824) rappresentano un'importante testimonianza dell'evoluzione stilistica di Donizetti e della sua capacità di adattarsi alle diverse esigenze teatrali. La versione romana, concepita per il Teatro Argentina, segue ancora fedelmente il modello rossiniano, con una struttura formale rigidamente articolata in numeri chiusi e un’orchestrazione sobria, coerente con le limitate risorse del teatro.
Per la Scala di Milano, Donizetti intervenne in modo sostanziale. L’orchestrazione fu arricchita con un maggiore uso dei fiati e una scrittura armonica più densa, che preannuncia le future evoluzioni del compositore. La vocalità subì significative trasformazioni: arie e duetti furono rielaborati per valorizzare le capacità tecniche dei cantanti scaligeri, con un aumento del virtuosismo e un approfondimento espressivo, specialmente nel ruolo eponimo di Zoraida.
Dal punto di vista drammaturgico, i finali rivelano una notevole maturazione. Il finale primo della versione romana, pur efficace, risulta convenzionale, mentre quello milanese mostra una tensione drammatica più marcata e una maggiore integrazione tra voci e orchestra. Analogamente, il finale secondo nella versione di Milano è più articolato e complesso, con un uso incisivo del coro e un ampliamento della dinamica espressiva.
Queste modifiche, sebbene rispondano a contingenze pratiche e ai differenti contesti teatrali, evidenziano il rapido sviluppo compositivo di Donizetti, che, pur muovendosi entro il linguaggio belcantistico, inizia a delineare un approccio più personale, preludio alla piena maturità artistica. Tuttavia, quest'opera rimane una prima prova del genio compositivo di Donizetti, non ancora pienamente sviluppato, e nel complesso non offre pagine di eccezionale interesse. L’allestimento, firmato per la regia da Bruno Ravella, si caratterizza per una radicale trasposizione dell’opera in un contesto temporale e spaziale lontano dal suo originale, spostando l’ambientazione all’epoca della guerra in Bosnia. La scenografia di Gary McCann, che secondo le intenzioni dovrebbe riprodurre la Biblioteca di Sarajevo distrutta, si fa portavoce di una riflessione visiva potente, sebbene trasporti la narrazione in un orizzonte estetico che, seppur ispirato allo stile moresco, risulta distante dal contesto storico e culturale del XV secolo. L’intento di evocare il dramma bellico del periodo moresco viene, così, diluito, lasciando il posto a una guerra priva di un’identità definita.
La scelta di ambientare l’opera in un conflitto indeterminato, popolato da soldati in tuta mimetica da cecchino, pare essere una mera allusione all’attualità, riflettendo l’ineluttabile perdita che la guerra porta con sé. In questo modo, le figure di Zoraida e degli altri personaggi sembrano muoversi in un contesto che trascende la specificità storica della trama, annegando nel generale disorientamento di un conflitto senza tempo. Le donne, vestite con abiti semplici, in una sorta di reminiscenza degli anni '60, e i tiranni Almuzir e Almanzor, abbigliati con giacca e cravatta, appaiono estranei all’intensità drammatica della situazione, incapaci di restituire la minaccia e la tensione che dovrebbe definire il contesto di assedio e guerra intestina.
A queste scelte si aggiunge la presenza enigmatica di un doppio mimo che interagisce con Zoraide per poi svanire senza lasciare traccia. Tale inserimento, lontano da un’intenzione chiaramente definita, si configura come un espediente scenico privo di vera funzione narrativa, che non arricchisce la comprensione del testo né il suo sviluppo emotivo. Le trovate registiche, prive di una coerenza organica e di una giustificazione drammaturgica, risultano quindi incapaci di conferire un valore aggiunto alla narrazione, trasformando l’intera concezione scenica in un mero esercizio stilistico fine a sé stesso. Questa impostazione, nel suo disorientamento espressivo, finisce per disperdere l’attenzione degli spettatori, rendendo difficile mantenere viva la loro concentrazione e contribuendo a generare una generale sensazione di distacco e monotonia.
Dal punto di vista musicale, l’esecuzione ha costituito un notevole esempio di raffinatezza e attenzione ai dettagli, grazie alla conduzione del direttore Alberto Zanardi e al contributo del complesso strumentale *Gli Originali*, che ha scelto l’utilizzo di strumenti d’epoca. Questa scelta ha restituito all’orchestra una sonorità morbida e pastosa, particolarmente adatta a valorizzare le caratteristiche acustiche del Teatro Sociale, con il suo soffitto a capriate lignee, che favorisce una percezione più intima e sfumata del suono, sebbene ciò avvenga a discapito di una certa brillantezza e di una incisività drammatica che avrebbero potuto conferire maggiore energia e tensione espressiva all’insieme orchestrale. Zanardi ha diretto con precisione e finezza, dosando sapientemente i vari passaggi sonori e dedicando particolare attenzione alle vocalità sul palcoscenico, che sono state in tal modo messe in risalto senza mai sopraffare le linee melodiche.
Il coro, nuovamente affidato all'Accademia della Scala sotto la guida di Salvo Sgrò, si è distinto non solo per la sua prestazione vocale, ma anche per la sua partecipazione scenica. Nella sua formazione maschile, il coro ha svolto con competenza e coerenza il suo ruolo dinamico all’interno della rappresentazione, contribuendo attivamente alla narrazione attraverso il movimento.
Per quanto riguarda i solisti, la protagonista Zoraide è stata interpretata dal soprano Zuzana Marková, la cui voce lirica ha saputo affrontare con agilità le complesse ornamentazioni vocali, nonostante un’espressività complessivamente generica e un’aderenza vocale al personaggio che, pur corretta, non si è rivelata particolarmente entusiasmante o distintiva. La sua abilità nell’affrontare le lunghe e intricate linee melodiche è stata particolarmente apprezzata, risultando complessivamente di grande eleganza vocale.
Nel ruolo di Abenamet, concepito originariamente per il contralto Rosmunda Pisaroni nella versione del 1824, si è distinta il mezzosoprano Cecilia Molinari. La sua interpretazione ha messo in evidenza una solida preparazione rossiniana, con particolare merito nel complesso rondò finale, in cui ha brillato per precisione tecnica e musicalità. Allo stesso tempo, la sua esperienza nel repertorio barocco ha trovato spazio nell’esecuzione di affondi timbrici e chiaroscurali, conferendo al personaggio una dimensione di eroismo etico e senza macchia.
Il tenore coreano Konu Kim si è cimentato nel ruolo di Almuzir, un personaggio complesso che, dal conflitto iniziale, approda a un significativo pentimento finale. Originariamente concepito per il leggendario baritenore Domenico Donzelli, il ruolo richiede una vocalità di grande potenza e dal timbro scuro, capace di tradurre sia l’autorità che il travaglio interiore del personaggio. Sebbene il fraseggio abbia mostrato alcune incertezze, Kim ha portato a termine la sua interpretazione con determinazione e una buona dose di vigore espressivo, riuscendo a costruire una figura scenicamente rilevante e piena di intensità emotiva. Il soprano Lilla Takacs, nel ruolo di Ines, e il basso Tuty Hernández, in quello di Almanzor, entrambi formati presso gli “Allievi della Bottega Donizetti”, si sono distinti per l’impegno profuso nell’affrontare i lunghi recitativi, ottenendo esiti pregevoli culminati nelle ben eseguite arie solistiche. Particolarmente apprezzabile è stata l’interpretazione di Hernández, il cui timbro caldo e incisivo, unito a un’esecuzione delle agilità di straordinaria precisione, ha conferito ulteriore spessore al personaggio.
Il bilancio complessivo della serata è stato ampiamente positivo, con un’accoglienza calorosa da parte di un pubblico internazionale che ha affollato il teatro. L’esecuzione ha suscitato unanimi apprezzamenti per l’alto livello musicale e l’accuratezza interpretativa. Tuttavia, nonostante la qualità dell’esecuzione, la lunghezza eccessiva dell’opera ha messo in evidenza i limiti di una drammaturgia che appare difficile da sostenere. Questa Zoraida può quindi tranquillamente tornare a riposare negli archivi della Fondazione Donizetti per altri duecento anni, senza che se ne senta una particolare mancanza.
Pierluigi Guadagni
LA PRODUZIONE E GLI INTERPRETI
ZORAIDA DI GRANATA
Melodramma eroico di Bartolomeo Merelli e Jacopo Ferretti (versione rinnovata)
Musica di Gaetano Donizetti
Prima rappresentazione: Teatro Argentina, Roma, 7 gennaio 1824 (versione rinnovata)
Edizione critica a cura di Edoardo Cavalli © Fondazione Teatro Donizetti
Progetto #Donizetti200
Almuzir Konu Kim
Zoraida Zuzana Marková
Abenamet Cecilia Molinari
Almanzor Tuty Hernàndez*
Ines Lilla Takács*
Alì Zegri Valerio Morelli*
*Allievi della Bottega Donizetti
Figuranti Giorgio Maffeis, Samuele Migone, Nadia Mentasti, Matilde Piantoni
Direttore Alberto Zanardi
Regia Bruno Ravella
Scene e costumi Gary McCann
Luci Daniele Naldi
Costumista collaboratrice Gabriella Ingram
Assistente alla regia Filippo Rotondo
Assistente scenografa Gloria Bolchini
Assistente alle luci Paolo Bonapace
Maestro alle armi Carmine De Amicis
Orchestra Gli Originali
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala
Maestro del Coro Salvo Sgrò
Nuovo allestimento della Fondazione Teatro Donizetti in coproduzione con il Wexford Festival Opera
Donizetti Opera 2024
FOTO GIANFRANCO ROTA
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